Nel corso delle nostre interviste abbiamo voluto esplorare anche il rapporto tra dipendenti e brand e lo abbiamo fatto con Stefania Boleso, docente e consulente di marketing, che ci ha offerto una visione interessante sul ruolo dei dipendenti come ambasciatori del brand e sull’importanza dell’employee experience.
Boleso, forte della sua esperienza nel settore, sottolinea come la comunicazione aziendale vada ormai oltre i canali ufficiali, esprimendosi sempre più anche attraverso le voci autentiche dei dipendenti, che diventano naturali portavoce dell’organizzazione. Nel corso dell’intervista abbiamo analizzato come le aziende possano costruire un ambiente che stimoli un coinvolgimento positivo e spontaneo dei propri collaboratori.
Cominciamo con il chiarire cosa si intende per brand ambassador e in che modo lo diventano i dipendenti.
Tutti in azienda, più o meno consapevolmente, sono dei brand ambassador, perché ogni volta che una persona si relaziona con qualcuno di esterno – non necessariamente il cliente finale, ma anche fornitori o business partner – rappresenta il volto dell’organizzazione. C’è addirittura una ricerca che dimostra come fino al 70% dell’opinione che un cliente ha dell’azienda deriva dall’interazione con le persone di quell’azienda. Questo aspetto è molto importante ma spesso sottovalutato, perché si pensa erroneamente che il brand di un’azienda sia rappresentato solo dai prodotti o servizi che vende. In realtà, sono le persone che vendono i prodotti, li raccontano o forniscono servizi di supporto a rappresentare e dare vita a ciò che il brand promette.
Quindi può essere una leva importante. Recentemente ho letto un tuo post che richiamava proprio questo tema “del metterci la faccia”.
Ognuno all’interno dell’organizzazione è già un ambassador nella propria attività quotidiana. Poi ci sono persone specificamente coinvolte dall’azienda per raccontarla in modo ufficiale, sia in occasioni offline — come giornate in università, presentazioni nelle scuole superiori, interventi a convegni — sia online attraverso il racconto della loro attività aziendale sui social network o tramite campagne pubblicitarie vere e proprie. L’esempio che ho citato nel mio post è un’iniziativa di una banca di credito cooperativo (Emil Banca) che, per comunicare i propri valori, ha realizzato una campagna pubblicitaria nelle filiali con i propri dipendenti come protagonisti — le stesse persone che i clienti incontrano in filiale, allo sportello o quando vanno, ad esempio, a negoziare un mutuo. Ho trovato particolarmente interessante anche l’operazione di Lavazza che, per il lancio della nuova capsula, ha creato un’attività di teasing su LinkedIn qualche giorno prima del lancio ufficiale: tutti i dipendenti hanno pubblicato post criptici mostrando una cialda che, personalmente, mi ricordava un biscotto. Era evidente che avesse a che fare con il caffè, come è stato svelato alcuni giorni dopo. Ma anche senza arrivare a queste operazioni così strutturate, il semplice racconto di ciò che avviene all’interno dell’organizzazione, fatto non solo attraverso le pagine corporate ma anche tramite i profili dei dipendenti, aggiunge valore perché conferisce non solo visibilità all’organizzazione, ma soprattutto credibilità, essendo persone reali che condividono la propria esperienza.
Quindi, come dicevi, i dipendenti possono essere brand ambassador sia ingaggiati direttamente dall’azienda o per iniziativa personale. È importante che l’azienda ne sia consapevole e possa guidare questo processo?
Anche se un’organizzazione dice “non voglio che i miei dipendenti parlino dell’azienda”, loro lo fanno comunque. Il principio del passaparola, come dico sempre, esiste da quando vivevamo nelle caverne. Dato che questa comunicazione avviene naturalmente, sarebbe importante per le aziende esserne consapevoli e, non tanto controllarla, quanto creare le condizioni affinché le persone possano raccontare al meglio il contenuto del proprio lavoro.
Infatti, si parla anche di experience per i dipendenti utilizzando il termine employee experience. Si tratta proprio di questo: quanto stanno bene i dipendenti in quell’azienda e quanto sono propensi a parlarne bene?
Le persone parlano, i consumatori parlano, così come i dipendenti. L’obiettivo di un’organizzazione dovrebbe essere quello di mettere i dipendenti nelle condizioni di parlarne bene. Cosa significa? Significa offrire loro condizioni di lavoro complete che consentano al dipendente di esprimere appieno il suo potenziale, di essere soddisfatto e quindi di parlarne bene spontaneamente. Una ricerca mostra che oltre il 50% delle persone condivide spontaneamente sui social network i contenuti dell’azienda per cui lavora. Più l’età si abbassa, più questa percentuale aumenta, anche su canali diversi. È quindi importante prendersi cura del dipendente a 360 gradi, perché un dipendente soddisfatto metterà in moto un passaparola positivo tra amici e conoscenti, non necessariamente solo online. È un aspetto che spesso si tende a sottovalutare. Ho scritto un articolo tempo fa sostenendo che non siamo più nell’epoca della employee experience e della customer experience separate, ma della “People Experience”, come la chiamo io. Perché ciascuno di noi indossa cappelli diversi. Io come dipendente posso anche essere cliente di quell’organizzazione, oppure posso essere un fornitore. Sulla base della mia esperienza come fornitore mi faccio un’idea di quell’azienda e posso influenzare il comportamento d’acquisto di altre persone che magari sono già clienti o stanno considerando di diventarlo.
È ormai da diversi anni che parliamo di employee experience, e nel tempo è aumentata la consapevolezza, l’attenzione delle aziende e l’interesse verso questo tema?
L’interesse e l’attenzione ci sono, ma fino a un certo punto. In alcune professioni, come sai, c’è carenza di talenti, quindi c’è molta attenzione nel coinvolgere i giovani verso determinate figure professionali. Quello che manca è la consapevolezza che l’employee experience deve essere a 360 gradi: va dal momento in cui cerchiamo di attrarre e coinvolgere il talento nell’organizzazione, al processo di onboarding quando la persona entra, alla quotidianità lavorativa, fino al momento in cui lascia l’azienda – che sia per cambio lavoro o pensionamento. In tutti questi momenti si genera un passaparola: la persona condivide la sua esperienza con amici, conoscenti e parenti, sia online che offline, inclusi i siti di recensioni aziendali. Questo passaparola racconta come la persona sta vivendo l’esperienza. Quanto più l’esperienza è positiva, tanto più si tradurrà in un servizio migliore non solo verso i clienti, ma anche verso tutti gli altri business partner.
Quindi in fondo partire dai dipendenti vuol dire anche pensare ai clienti?
Assolutamente, perché un dipendente soddisfatto trasferisce questa sua soddisfazione attraverso una maggiore attenzione al lavoro e una migliore qualità del servizio. Questo è particolarmente evidente nel front office, dove si traduce in una migliore accoglienza del cliente e nella capacità di farlo sentire compreso. Un dipendente soddisfatto fornisce un servizio migliore che rende anche il cliente soddisfatto. È un’esperienza che tutti abbiamo vissuto. Per esempio, stamattina ho chiamato un call center per una prenotazione e percepivo chiaramente che l’operatore avrebbe preferito essere altrove — questo ha influenzato negativamente la mia percezione del brand. Più le persone in azienda sono coinvolte e ingaggiate, più trovano significato in ciò che fanno. I giovani, in particolare, cercano questo significato: vogliono capire perché svolgono determinate attività e come il loro contributo si inserisce nel progetto più ampio dell’organizzazione. Essere coinvolti non significa che tutti debbano partecipare a ogni decisione, ma piuttosto comprendere le ragioni dietro le scelte aziendali. Questo è uno dei modi migliori per far sentire le persone partecipi sia a livello macro che micro, per mantenerle ingaggiate e far sì che sentano l’azienda un po’ come propria.
Ma pensando al caso ideale, quale può essere il percorso da fare per gestire insieme l’employee e la customer experience?
Per quanto riguarda i dipendenti, bisognerebbe sempre condurre delle indagini di clima organizzativo – ed esistono diverse metodologie per poterlo fare. Come per la customer experience, dobbiamo partire dalle persone per progettare l’esperienza. Questa esperienza, progettata a partire dalle persone, deve essere poi periodicamente rivista. Si raccolgono i feedback per capire dove ci sono i punti di frizione e quali sono invece i “wow moment” da valorizzare, per portare un miglioramento continuo sia dal lato cliente sia dal lato dipendente.
Quindi il percorso è: ascolto, cerco di capire come stanno, come viene visto il brand sia dal dipendente che dal cliente, e sulla base dei feedback ricevuti e metto in atto le misure di miglioramento…
Esatto. Un’esperienza positiva va mantenuta, non dandola per scontata, ma rimanendo continuamente in ascolto per capire cosa funziona e cosa può essere migliorato. Il miglioramento non è necessariamente legato a qualcosa che viene fatto male, ma al fatto che le persone cambiano – sia i consumatori che i dipendenti si evolvono. Un’esperienza che andava bene cinque anni fa potrebbe non essere più adeguata oggi o potrebbe essere ulteriormente migliorata.
Immagino che ci sia anche una linea sottile, come esiste per i clienti, tra il sentirsi obbligati a essere partecipi dell’azienda ed esserlo veramente.
Esattamente. Infatti, quando parliamo di ambassador online o di persone che si candidano per rappresentare l’azienda nelle attività offline – come career day e convegni – quello che funziona è la candidatura spontanea. Il progetto ha successo quando il coinvolgimento attivo delle persone parte da loro stesse. L’azienda può presentare il programma, ma devo anche essere consapevole che alcuni dipendenti, pur essendo ingaggiati, caratterialmente non amano esporsi. Come azienda, devo essere brava a mantenere questi dipendenti comunque coinvolti, perché rappresentano comunque l’organizzazione verso il loro pubblico. Per esempio, un responsabile acquisti potrebbe voler continuare a fare solo quello. Il coinvolgimento delle persone come volto dell’organizzazione, sia online che offline, funziona meglio quando l’azienda offre questa possibilità e lascia che si facciano avanti le persone che per attitudine desiderano mettersi in gioco. Da un lato, chi non viene coinvolto non si sente sminuito, poiché tutti hanno la possibilità di candidarsi. Si fanno avanti naturalmente solo coloro che sentono l’attitudine per svolgere attività più visibili rispetto alla quotidianità — attività che comunque comportano l’interazione con il pubblico e quindi la rappresentanza del brand aziendale.
C’è anche il caso di chi dice “Non posso parlare della mia azienda, non posso citarne il nome nei miei post”. Cosa ne pensi?
L’abilità delle organizzazioni sta nel comprendere che, dato che se ne parlerà comunque, è importante mettere le persone nella condizione di parlarne bene. Questo non significa obbligarle a parlare bene, ma far vivere loro un’esperienza interna positiva che le porti a farlo spontaneamente. È davvero assurdo pensare di vietare alle persone di parlarne. Su certi social viene riportato il nome e cognome della persona e anche l’azienda dove lavora. E anche dove non è indicata l’azienda, con una semplice ricerca per nome si può scoprire che Mario Rossi, per fare un esempio, lavora nell’azienda X piuttosto che nell’azienda Y.
È dunque meglio gestire consapevolmente questa attività piuttosto che ritrovarsi in una situazione come quella recente del libro pubblicato dalla manager di Meta, che critica aspramente sia Zuckerberg che Sheryl Sandberg, descrivendo le condizioni di lavoro in azienda. Prendersi cura delle persone permette di evitare questi casi limite e le recensioni negative su Glassdoor. Questo approccio porta a una maggiore fidelizzazione dei dipendenti e facilita l’attrazione di nuovi talenti, poiché attraverso il passaparola le persone possono farsi un’idea concreta di cosa significhi lavorare all’interno dell’organizzazione.
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