Il rapporto tra Brand e Customer Experience

Intervista Francesco Sordi, Consulente e docente marketing

Quando si considerano brand e customer experience come due aspetti separati si corre il rischio di creare un divario tra le promesse del brand e l’esperienza effettiva del cliente, si generano crisi di fiducia che possono danneggiare seriamente il business. Se, invece, brand e customer experience sono perfettamente allineati, si crea un circolo virtuoso che rafforza la fiducia del cliente e consolida la reputazione aziendale.

Abbiamo approfondito questo tema con Francesco Sordi, consulente marketing, docente e imprenditore, per esplorare perché e come superare questa divisione.

Spesso brand e customer experience vengono trattati separatamente nelle aziende. Quali rischi comporta questo approccio?

Mi piace rispondere con una massima provocatoria: “Non osi l’azienda dividere ciò che il cliente unisce”. Dobbiamo ripartire dal senso autentico che diamo alle parole quando parliamo di brand. il brand è ciò che sta nella mente del cliente – questa è la definizione che preferisco. Un’azienda non è ciò che vuole raccontare di essere, ma è ciò che i clienti attuali o potenziali dicono e pensano del brand.  Tutto quello che l’azienda fa attraverso il suo brand mira ad agire nella percezione del cliente e deve partire dall’analisi dell’attuale percezione del cliente. Nella mia personale visione, brand e customer experience sono o devono essere necessariamente la stessa cosa. C’è un unico grande modo per creare un grande brand: promettere tutti i giorni le stesse cose e mantenere tutti i giorni quelle promesse.

Quindi, il segreto è proprio mantenere coerente la promessa con l’esperienza reale del cliente?

Esattamente. Una promessa non mantenuta genera gravi crisi reputazionali. Come ben spiega Luca Poma nel suo libro “Crash Reputation”, quando l’immagine che diamo di noi stessi differisce dalla verità e dall’identità concreta quotidiana, nascono le crisi reputazionali. Queste poi diventano crisi di fiducia e crisi di profittabilità per le aziende. Dobbiamo mantenere un forte legame tra ciò che siamo e ciò che diciamo, tra ciò che promettiamo e ciò che realizziamo concretamente ogni giorno. Non solo per questioni etiche, ma anche perché questa è la via primaria per mettere in sicurezza il nostro business.

Perché, secondo te, le aziende continuano ad operare con funzioni interne separate con il rischio di creare disallineamenti tra ciò che si dice e ciò che si fa nella realtà?

Siamo figli della rivoluzione industriale, un modello basato sulla massima efficienza attraverso la divisione in sottoproblemi e funzioni separate. Così, man mano che le aziende sono cresciute, abbiamo separato la produzione dalla vendita, il marketing dalla logistica, la finanza dalle operations, e così via. Il problema è che mancano i ponti tra le diverse funzioni. È come se le aziende, soprattutto quelle grandi, fossero composte in realtà da tante mini-aziende che vivono come monadi separate. Il rischio è la schizofrenia organizzativa: una moltiplicazione di identità raccontate, perché ognuno guarda solo alla sua parte invece che all’intero. Chi ne fa le spese è il cliente, che riceve comunicazioni e immagini diverse e si sente spaesato. Questo depaupera il patrimonio di reputazione e l’asset intangibile del brand, invece di costruirlo attraverso principi di coerenza, costanza e convergenza.

In che modo si potrebbe superare questa visione frammentata?

La grande sfida è dimostrare la maggiore efficacia ed efficienza dell’approccio customer-centric. Da febbraio dell’anno scorso, ho co-fondato con Laura Franchi un’azienda chiamata Build Forest che si occupa di organizzare processi e progetti aziendali attorno al marketing con una visione ecosistemica. Il nostro approccio vede il marketing come qualcosa che inizia molto prima e finisce molto dopo ciò che accade dentro l’ufficio marketing. La sfida è ridisegnare funzioni e processi di marketing in base a ciò che crea maggior valore percepito per il cliente. Questo si traduce in maggiori e migliori vendite, eliminando i costi nascosti dei processi inefficienti.

Qual è l’ostacolo maggiore che si incontra nel passare a una visione customer-centric?

Il più grande concorrente che abbiamo quando cerchiamo di superare le visioni individuali rispetto a ciò che crea valore per il cliente è il “secondo me”. Siamo schiavi delle visioni individuali, come quelle degli agenti di commercio che dicono di conoscere il mercato. L’obiettivo della prima azienda che ho fondato, Surf the Market, è proprio portare un punto di vista oggettivo, analizzato in modo scientifico da un soggetto terzo, per comprendere l’immaginario di consumo, la voice of customers, i consumer insights e la percezione del cliente.

Prima hai detto che il marketing non sta dentro l’ufficio marketing, puoi spiegare meglio?

Il termine marketing deriva dal verbo “to market” e che nella forma in ing indica la continuità. Il marketing è quindi  l’insieme di tutte le attività che connettono l’azienda al mercato. La funzione commerciale, il design, la progettazione dei prodotti – tutto questo è marketing. Purtroppo, soprattutto in Italia, abbiamo una visione di marketing appiattita sulla comunicazione. Circa il 90% delle aziende che pensano di avere un ufficio marketing hanno in realtà un ufficio comunicazione, perché non si occupano mai delle leve prodotto, prezzo e distribuzione. Quando ci occupiamo di marketing, dobbiamo necessariamente allargare il tavolo. L’ufficio marketing può essere il punto di riferimento, ma la discussione deve includere tutti coloro che hanno il potere o la responsabilità di agire nei confronti del mercato. Solo con questa visione collettiva possiamo evitare i rischi discussi in precedenza.

Da quando hai iniziato la tua attività di consulenza hai visto qualcosa che sta cambiando?

Devo dire di sì. Soprattutto dopo la crisi del 2008, quando molte aziende hanno iniziato a comprendere la necessità di studiare e investire in modo più approfondito nella strategia e nell’intangibile. Tra il 2005, quando ho iniziato a lavorare in un’agenzia di comunicazione, e il 2008, era molto difficile portare questi principi in aziende che crescevano anche facendo tutto il contrario, con grande pressapochismo e con un approccio fortemente egocentrico. La crescita economica tirava dentro tutti – qualcuno performava di più, qualcuno meno, ma comunque meglio di quelli bravi di oggi. Quando le cose si sono fatte un po’ più difficili , qualcuno ha iniziato a studiare e a cercare soluzioni che permettano di recuperare produttività e competitività. Certo non è semplice, perché mettendosi nei panni di una persona che ha guidato un’azienda, magari per 40 anni, secondo il suo piglio, il suo punto di vista e le sue credenze, non è immediato cambiare questa prospettiva e comprendere come il mercato sia cambiato. I giovani fanno meno fatica perché sono parte del mondo attuale, hanno meno pregiudizi e meno presunzione.

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